Intanto a Cannes… il casting chic di Wes Anderson, la lezione di Rachida Dati e un film “capro espiatorio”

Il regista Wes Anderson (al centro) circondato dal cast di "The Phoenician Scheme": (da sinistra a destra), Benedict Cumberbatch, Jeffrey Wright, Mia Threapleton, Benicio Del Toro, Rupert Friend e Michael Cera VALERY HACHE / AFP
CANNES REcap , SESTO GIORNO. Le star di Hollywood sfilano sul red carpet per l'ennesima apparizione del regista de "Le avventure acquatiche di" a Cannes. Ma non è necessario lasciarsi abbagliare dai glitter.
Il più chic dei red carpet di Cannes dopo quelli già scintillanti di "Mission Impossible - The Final Reckoning" (Tom Cruise in maestà) o di "Eddington", il neo-western allucinatorio di Ari Aster (Joaquin Phoenix, Emma Stone, Pedro Pascal)? Senza dubbio quello di "The Phoenician Scheme", tredicesimo film del regista Wes Anderson, figlio di un archeologo e di un pubblicitario, dall'estetica precisa e dall'ossessione maniacale per i dettagli, girato nei leggendari studi di Babelsberg. Il programma racconta le vicissitudini di Zsa Zsa Korda, una magnate delle armi con l'abitudine di fare incidenti aerei alla ricerca di un'ereditiera (la famiglia rimane il nodo gordiano della filmografia del regista). Nel cast nientemeno che Benicio del Toro, Mia Threapleton (figlia di Kate Winslet, clone di Anna Karina ne "La vocazione del male" di Jacques Rivette), Scarlett Johansson (scusata perché si sta riservando per la presentazione del suo film martedì), Tom Hanks, Michael Cera, Benedict Cumberbacht e così via... Ai lati del red carpet, la schiera dei fotografi non aveva più voce. Poco prima, la troupe del brasiliano Kleber Mendonça Filho (Premio della giuria nel 2019 con "Bacurau"), aveva già scalato l'Everest fino alla sala Lumière, per "L'agente segreto", unico film sudamericano in concorso sul periodo della dittatura militare, tra percussionisti e musicisti. Cannes, 78° o più decibel di vita.
La lezione di Rachida DatiLa Ministra della Cultura non è timida quando si tratta di salire sui gradini di Cannes. L'anno scorso, un giorno è stato visto accanto a Richard Gere, il giorno dopo al braccio di Kevin Costner. Quest'anno, il suo programma prevedeva inizialmente lezioni sulla professione tenute il sabato. Dopo aver attaccato il servizio pubblico in diretta su France Inter, è andata a criticare il cinema francese a Cannes, invocando in particolare la difesa dell'eccezione culturale francese, scossa "dall'intelligenza artificiale, dalle tensioni geopolitiche e dagli arieti dell'amministrazione americana". Per farlo, ha invitato produttori e registi ad accompagnarla a Bruxelles. "I nostri diplomatici, tutti coloro che lavorano alla Commissione, ci dicono: noi lottiamo per difendere questo modello francese, ma vediamo sempre meno artisti" che vengono a sostenere questa lotta, si è lamentata prima di aggiungere: "Ho conosciuto Claude Berri, (Bertrand) Tavernier che venivano a difendere questo modello". E per chi non capisse: "Alcuni dicono 'no, non vogliamo mischiare la politica', ma non vi stiamo chiedendo di scattare foto con noi su un manifesto elettorale".
Sembra che il suo appello sia stato ascoltato perché il giorno dopo Rachida Dati è apparsa sul red carpet con una delegazione di cineasti europei tra cui il francese Claude Lelouch e il franco-greco Costa-Gavras. Quanto è efficace! (Era per dare il benvenuto alla squadra del film di Wes Anderson. Affascinante, certo, ma un po' lontano dal famoso "modello francese da difendere", no?)
"Muori amore mio" : crack, boom, buuuuDall'inizio delle ostilità di Cannes, il concorso si è diviso tra film che dividono la stampa, a volte persino la stessa redazione ("Eddington", "Sirat") e quelli attorno ai quali si è raccolto un consenso più o meno debole ("Nouvelle vague", "Due procuratori"). "Die My Love", il nuovo lavoro dell'attrice scozzese Lynne Ramsay, habitué della Croisette ("Dobbiamo parlare di Kevin"), fa rivivere un grande classico del festival finora assente: il film del capro espiatorio, sul quale si riversa una raffica di critiche da ogni parte. Incluso il nostro.
Tratto dall'omonimo libro dell'argentina Ariana Harwicz, "Die My Love" immerge lo spettatore nella psiche caotica di Grace (Jennifer Lawrence), una giovane madre e scrittrice, che si è da poco stabilita con il suo bambino e il compagno (Robert Pattinson) in una fattoria fatiscente del Montana. L'ipotesi dell'alienazione della casalinga causata dalle cattive vibrazioni della casa (una versione malfamata e sperduta dell'Overlook Hotel di "Shining", dove l'ex proprietario, un vecchio zio del fidanzato, si è tolto la vita) regge per un breve periodo, prima che il film smetta di cercare di scoprire la fonte del male.
Lynne Ramsay preferisce la tragedia monomaniacale o la cronaca dell'estremo all'indagine psicologica: il racconto si limita a ripetere lo stesso ritornello di immagini, argomenti e schemi perversi, fluendo in un ritmo che è al tempo stesso stroboscopico ed eccessivo. La colonna sonora rock invadente, spinta all'estremo, venata, a seconda dei punti di vista, dalle urla della coppia, dai vagiti del bambino o dall'abbaio acuto del cane di casa, contribuisce a orchestrare questo delirio ciclico, che spinge tutti e tutto (spettatore compreso) allo sfinimento, come se puntasse a una sorta di trance in cui la fanno da padroni rumore e furia.
Sì, ma ecco il punto: dopo una manciata di minuti in cui il meccanismo inizia a entrare in funzione, "Die my love" si impantana nella noia più cupa, nell'estetica più pacchiana e nel vuoto più totale. Il desiderio purulento di impressionare, sia visivamente che simbolicamente (questo espediente della coppia che si contorce come animali selvatici in calore nell'erba alta, puro disagio alle gambe), uccide sul nascere il minimo embrione di mistero, e la follia pavloviana di Grace produce solo gesticolazioni e una farandola di cliché coniugali. Da questo disastro emergono a malapena i pochi commenti sgradevoli rivolti dalla giovane donna ai dolci negozianti o ai superficiali vicini: tre scene delicatamente catartiche. Oppure questa fascinazione sempre più evidente di Jennifer Lawrence per la cosa masochistica, "Die my love" che rilancia lo spettro della problematica dimostrazione di "Mother! » di Darren Aronofsky girata otto anni prima con la star, questo pretesto per sadizzare le donne mascherato da favola #Metoo.
Attenzione all'effetto lente d'ingrandimento di CannesCannes, terra di contrasti. Da una parte, l'attore Raphaël Quenard viene, con la sua consueta sfacciataggine, a presentare a Cannes Classics, "I Love Peru", un finto documentario sotto forma di autoritratto co-diretto con una telecamera, "alla maniera del pirata" , cioè al volo, nell'arco di tre anni con Hugo David. Da Jonathan Cohen a François Civil, l'intero panorama cinematografico francese è presente. Thierry Klifa, invece, presenta fuori concorso "La donna più ricca del mondo", liberamente ispirato al caso Woerth-Bettencourt, con Isabelle Huppert, in una versione romanzata di Liliane Bettencourt, figlia del fondatore della L'Oréal, e Laurent Lafitte nel ruolo di François-Marie Banier. Il denaro, la mancanza di denaro, la tensione della guerra e il vero problema. Mentre il Festival, vetrina glamour di un ambiente che populisti di ogni tipo riducono a una casta di privilegiati, giunge quasi alla fine, indaghiamo sullo stile di vita degli autori e registi francesi.
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Di Julien Bouisset, Guillaume Loison, François Sionneau e Sophie Grassin